Non
si conosce con precisione l'origine della famiglia di Vitellio. Dicono alcuni
che i Vitellii discendono da Fauno, rè degli Aborigeni e da Vitellia che era
adorata come dea; che regnarono nel Lazio, che stabilitisi a Roma furono ammessi
nell'ordine dei patrizi, che da soli difesero contro gli Equi una colonia; altri
invece sostengono che il capostipite fu un liberto o un ciabattino.
Il primo dei Vitelli di cui si abbiano notizie sicure fu Publio, di Nuceria,
cavaliere romano, procuratore di Augusto.
Ebbe quattro figli: Aulo che morì mentre era console con Domizio padre di Nerone,
Quinto che da Tiberio
venne rimosso dal Senato, Publio che accusò Gneo Pisone quale autore
dell'avvelenamento di Germanico e complottò con Seiano, e Lucio che fu console
e censore sotto Claudio e
grande adulatore di Caligola.
Figlio di Lucio fu Aulo Vitellio. Visse fanciullo a Capri presso Tiberio,
fu amico di Caligola col
quale guidava i cocchi e di Claudio
con cui soleva giocare ai dadi e amicissimo di Nerone.
Sposò prima una Petronia, poi una Galena, di Fondi. Amico di Tito Vinio,
ottenne per mezzo di lui il governo della Germania inferiore, ed essendo pieno
di debiti (in mano agli strozzini - vedi poi più avanti come li trattò)
dovette affittare la grande casa che possedeva e lasciare la moglie e i figli in
una casa più piccola e modesta presa in affitto. Giunto nella sua provincia si
rese così popolare fra le legioni per la sua clemenza e prodigalità che un
mese dopo fu gridato imperatore.
Si trovava nella Gallie quando gli giunse la notizia della battaglia presso
Bedriaco e del suicidio di Otone.
Così s'imbarcò sopra una nave parata a festa e, messosi in viaggio sulla Saóne,
si diresse alla volta di Lugdunum. Qui gli vennero incontro Cecina e Valente e i
capi dell'esercito di Otone.
Licinie Proculo e Svetonio Paulino, per aver salva la vita, gli dissero che a
loro era dovuta la vittoria di Bedriaco ed ottennero lo scopo.
Intanto a Roma era pervenuto l'annunzio della sconfitta e del suicidio di Otone
e forse anche della sottomissione di Proculo. Era in corso la celebrazione dei
ludi ceriali: i pretoriani e le coorti urbane prestarono giuramento di fedeltà
al nuovo imperatore, il popolo gremì il Foro applaudendo e, siccome Vitellio
era stato da Galba mandato
in Germania e veniva considerato come una creatura del morto principe, si
infiorarono le immagini di Galba
e sul luogo dove era caduto trafitto furono deposte numerose corone. Il Senato,
radunatisi in fretta, conferì a Vitellio il potere imperiale e tutti gli onori,
furono decretati ringraziamenti alle legioni del Reno e fu nominata una numerosa
commissione che doveva andare a congratularsi a nome dei padri col nuovo
imperatore.
Mentre le legioni germaniche vittoriose si abbandonavano a saccheggi e a
devastazioni nella valle del Po, Vitellio, lasciata Lugdunum, scendeva in
Italia.
Visitato il campo di Bedriaco, prese la via per Roma, seguito da numerose
truppe.
Vitellio era un uomo famoso per la sua ghiottoneria: il suo viaggio attraverso
la penisola fu una interminabile serie di banchetti costosissimi, le cui spese
andarono tutte a carico delle città. Famosa rimase la veglia data nei gioghi
dell'Appennino.
Entrò in Roma in abito da guerra, al suono delle trombe, tra le aquile e le
insegne, alla testa delle truppe che tenevano le spade sguainate. Il
fratello Lucio Vitellio diede in onore di lui un grandioso banchetto in cui
furono, tra gli altri cibi, serviti duemila pesci scelti e settemila uccelli.
Ammaestrato dall'esperienza fatta da Galba,
prima cura di Vitellio fu di circondarsi di truppe fedeli. La legione dei
marinai spagnoli venne mandata in Spagna; molti centurioni delle legioni
illiriche vennero messi a morte e le legioni stesse rimandate verso il Danubio;
la XIV Legione, famosa per la repressione della rivolta britannica, essendo più
turbolenta delle altre, fu inviata in Britannia ed ebbe alle costole, durante il
viaggio in Italia, le coorti dei Batavi con le quali non era in buoni rapporti.
A Torino, fra la legione e le coorti avvenne una zuffa che avrebbe prodotto
gravissime conseguenze se a frenare l'atteggiamento dei Batavi non fossero
accorse due coorti pretorie.
Il corpo dei pretoriani fu sciolto e fu ricostituito in sedici coorti di mille
uomini ciascuna con elementi tolti alle fidate legioni germaniche; anche le
coorti urbane furono sciolte e rifatte con legionari del reno. In questi
mutamenti circa ventimila dei migliori soldati furono tolti alle legioni delle
province germaniche. A Roma si fidavano più dei germanici che degli italici.
Coi suoi nemici politici Vitellio volle esser clemente e non permise,
difatti, che si toccasse il fratello di Otone,
e lasciò nella carica di console Mario Celso, ma fu severissimo con gli
astrologhi e coi suoi creditori. "Non risparmiò -scrive Svetonio- quasi
nessuno degli usurai che avevano reclamato da lui cinicamente il loro avere...
Ne mandò al supplizio uno nel momento in cui veniva a salutarlo; poi,
improvvisamente, ordinò che tornasse indietro e, mentre tutti lodavano la sua
generosità, egli comandò che fosse giustiziato sul posto per godere della
morte. Implorando due figli di un condannato la grazia del loro padre, fece
morire anche loro. Un cavaliere romano, che veniva condotto a morte, gli disse:
"Ti ho fatto mio erede"; Vitellio volle leggere il testamento e,
avendo costatato che il cavaliere lo aveva nominato erede insieme con un
liberto, fece uccidere lui e il liberto". Delle faccende dell'impero egli
si curò molto poco e lasciò che se ne occupassero Valente e Cecina. Fu per per
merito di costoro se due moti di rivolta, uno nella Mauritania, l'altro nella
Gallia, furono stroncati sul nascere. In Mauritania venne ucciso il procuratore
imperiale Lucio Albino che col nome di Juba voleva farsi rè della provincia; in
Gallia un certo Maricco aveva raccolto intorno a sé alcune migliaia di aderenti
proponendosi di dare la libertà alla sua patria, ma la ribellione fu
prontamente repressa da alcune coorti romane aiutate dagli Edui.
Vitellio
invece dedicava tutto il suo tempo alle feste e ai banchetti nei quali, durante
il breve spazio di pochi mesi, sciupò circa novecento milioni di sesterzi.
Spesso egli si faceva invitare a pranzo, e ogni pranzo non costava meno di
quarantamila nummi. Scrive Tacito "....tutta l'Italia, dall'uno all'altro
mare, fu saccheggiata perché il grande ghiottone avesse squisite vivande; e le
più autorevoli persone delle città e le città medesime andarono in rovina a
furia di imbandir mense".
Rimase famoso un piatto che Vitellio fece presentare in un banchetto e che per
la sua straordinaria grandezza fu chiamato lo scudo di Minerva: era pieno di
fegati di certi pesci chiamati scauri, di cervelli di fagiani e di pavoni, di
lingue di fenicotteri e di animelle di murene pescate nel Mediterraneo dalla
Siria alla Spagna.
Scrisse a ragione uno storico che se Vitellio fosse rimasto più a lungo a capo
dell'Impero questo sarebbe stato divorato.
Lungo però non poteva essere il suo impero. Il popolino, è vero, era contento
di lui per le feste che dava e scontento non era il Senato, la cui autorità era
cresciuta; ma il Senato e il popolo contavano pressoché niente come Sostegno di
un imperatore, le cui sorti riposavano sul favore dell'esercito.
Vitellio aveva l'appoggio dei pretoriani e delle legioni della Germania, ma era
malvisto dalle milizie che erano state favorevoli ad Otone, specialmente da
quelle dislocate nelle regioni danubiane e dalle legioni della Siria.
Queste ultime temevano di essere trasferite dall'Oriente in Germania; era
insistente questa voce e loro non potevano tollerare che solo le legioni
germaniche si arrogassero sempre il diritto di eleggere l'imperatore. Anch'esse
facevano parte dell'esercito e non erano da meno delle legioni del Reno e della
Spagna o di quei pretoriani che comodamente vivevano a Roma, anzi avevano
reso grandi servigi all' impero con la vittoriosa guerra della Palestina e per
ultima cosa avevano alla testa del loro esercito il più rinomato generale
del tempo: Vespasiano.
Su Vespasiano corsero gli sguardi delle milizie d'Oriente, indignate dal vedere
l'impero sotto la direzione di un ignobile ghiottone. Il primo di luglio del 69
Tiberio Alessandro, che comandava le due legioni d'Egitto, proclamò Vespasiano
imperatore e a lui fece prestare dalle milizie il giuramento di fedeltà; il 9
dello stesso mese le legioni di Giudèa giurarono pure queste nelle mani del
loro generale, poi il loro esempio fu immediatamente seguito da quelle di Siria,
il cui governatore, Licinio Muciano, aveva caldeggiato l'elezione di Vespasiano.
A lui giurarono fedeltà anche le legioni della Mesia, della Pannonia e della
Dalmazia; Soemo re della Sofene, Erode Agrippa II e Antioco della Commagene si
schierarono per il nuovo imperatore e Vologeso, re dei Parti, offrì
all'esercito di Vespasiano un aiuto di quarantamila arcieri, che però furono
rifiutati.
Vespasiano non era di
nobile famiglia; il suo avo Tito Flavio Petronio, di Rieti, aveva partecipato
col grado di centurione nell'esercito di Pompeo alla battaglia di Farsalo e,
tornato in patria, aveva fatto il banchiere: Sabino fìglio di questo, era stato
riscuotitore d'imposte in Asia, poi aveva esercitato l'usura in Elvezia, dove
era morto lasciando la moglie Vespaia Polla e due figli, Sabino e Vespasiano.
Quest'ultimo era nato a Falacrine, presso Rieti; giovine cadetto in Tracia era
poi stato nominato tribuno militare; creato questore, era stato mandato a Cirene
e sotto Caligola aveva
ricoperto la carica di pretore. Dalla moglie Flavia Domitilla aveva avuto tre
figli, Tito, Domiziano
e Domitilla.
Sotto Claudio aveva comandato una legione in Germania, poi era passato in
Britannia e al comando di Aulo Plazio aveva preso parte a numerose battaglie,
ricevendo in premio del suo valore gli ornamenti trionfali e il consolato. Aveva
tenuto da proconsole il governo della provincia d'Africa, aveva accompagnato Nerone
in Grecia e -come abbiamo letto nelle pagine precedenti- si trovava qui quando
venne mandato a comandare le legioni della Palestina a fare stragi di Ebrei.
Eletto dai suoi soldati imperatore, Vespasiano
tenne consiglio di guerra con Muciano a Berito (Beirut). Fu stabilito che
Vespasiano sarebbe andate in Egitto e in Africa, che Tito sarebbe rimasto in
Giudea a terminare la guerra contro gli ebrei e che Licinio Muciano, attraverso
la Cappadocia e la Frigia, avrebbe marciato verso l'Italia.
Il re dei Parti promise che non avrebbe molestati i confini della Siria. Poi si
diede da fare con alacrità a raccoglier denaro e a preparare armi.
Mentre in Oriente si discutevano i piani e si facevano i preparativi, le legioni
della Pannonia e della Dalmazia, che con entusiasmo si erano schierate con
Vespasiano, desiderose di vendicare su Vitellio la sconfitta di Bedriacum,
accettavano la proposta di Antonio Primo detto Becco di Gallina, comandante
della XIII Legione, e stabilirono di non aspettare l'arrivo di Muciano ma di
marciare ssubito verso l'Italia. Furono sollecitate le legioni della Mesia a
mettersi in cammino e perché i confini di questa regione nell'assenza delle
truppe non venissero molestati dalle popolazioni sarmatiche si diede posto nelle
legioni ai principi dei Sarmati Jazigi. Anche Sidone e Italico, re dei Suebi,
vollero partecipare all'impresa.
Il primo a muoversi fu Antonio Primo cui era stato dato il comando della
spedizione.
Ambizioso lui desiderava giungere prima di Muciano per ottenere una posizione di
prim'ordine sotto il nuovo imperatore. Antonio partì con due legioni e con un
forte nerbo di cavalleria, superò a marce forzate le Alpi, e penetrato nel
Veneto, occupò Aquileja, Padova e Vicenza, guadagnò alla sua causa tre coorti
vitelliane che stavano sulle rive del Po e si rese padrone di Verona.
Preoccupato dagli avvenimenti, Vitellio aveva dato ordine alle legioni della
Britannia, della Germania, delle Gallie e della Spagna di accorrere in Italia,
ma nessuno dei comandanti si era mosso aspettando tutti prudentemente che la
guerra si delineasse in favore dell'uno o dell'altro imperatore; poi Vitellio
comandò di raccogliere truppe in Italia e mandò Cecina con otto legioni a
fronteggiare le milizie di Antonio.
Cecina presidiò Cremona con due legioni, la I e la XXI; con le altre sei pose
il campo ad Ostiglia; però non era animato da grande entusiasmo per quella
guerra: la preferenza che l'imperatore aveva accordato a Valente aveva fatto
intiepidire la sua devozione per Vitellio; d'altro canto egli si era anche
accorto della critica posizione di Vitellio che aveva contro di sé la maggior
parte delle province. Era intento a temporeggiare quando gli giunse la notizia
che la flotta di Ravenna, comandata da Lucio Basso, si era ribellata facendo
causa comune con Antonio Primo. Allora stabilì di allacciare segrete trattative
con Antonio e, riuniti ad Ostiglia alcuni centurioni, li indusse a sposar la
causa di Vespasiano.
Le legioni però si rifiutarono di abbandonare Vitellio, legarono Cecina
chiamandolo traditore, cercarono due nuovi capi e, levato il campo da Ostiglia,
si diressero alla volta di Cremona per unirsi alle altre due legioni. Se
avessero avuto il tempo di congiungersi, le forze di Vitellio avrebbero forse
avuto ragione di Antonio Primo, ma questi con rapidità sorprendente marciò su
Cremona, attaccò le due legioni che la difendevano e, messe in rotta entrambe,
le costrinse a riparare dentro le mura.
Avuta notizia di quella sconfitta, le sei legioni di Ostiglia affrettarono il
passo e giunsero sul far della sera a Cremona e, sebbene stanche dalla lunga
marcia, attaccarono il nemico.
Fu una battaglia accanita e sanguinosa che durò tutta la notte. Dapprima parve
che la sorte volgesse in favore dei vitelliani, ma Antonio, raccolto un forte
nerbo di scelti soldati, fece attacchi impetuosi sugli avversari e rinfrancò i
suoi. Si diradavano le tenebre quando le legioni di Vitellio, premute e decimate
dalle milizie di Antonio, si ritirarono nel campo, sotto le mura della città;
ma neppure qui poterono rimanere: dopo una resistenza accanitissima vennero
sloggiate e si chiusero dentro le mura Cremona.
Spuntava l'alba. Gli ufficiali dell'esercito vinto, visto che era impossibile
resistere, decisero di venire a patti con Antonio, liberarono Cecina perché si
recasse al campo avversario e ottenesse che la città non venisse saccheggiata.
Invece non fu così: quarantamila uomini, dopo aver distrutte le ville
circostanti, entrarono in Cremona con le armi in pugno e per quattro giorni la
saccheggiarono orribilmente. Antonio aveva dato ordine che non si facessero
prigionieri i cittadini cremonesi, ma solo i soldati, ma non venne ubbidito e
poiché era stato convenuto fra gli italici che non si potevano né vendere né
comperare i cittadini catturati, molti di questi furono trucidati dalle
soldatesche ebbre di sangue, gli altri vennero segretamente riscattati.
L'infelice città, dopo il saccheggio venne data alle fiamme.
Fabio Valente si trovava a Pisa con le milizie ausiliario che conduceva verso il
Po quando gli giunse la notizia della sconfitta e della distruzione di Cremona.
Allora pensò di passare nella Gallia e continuare di là la guerra. Imbarcatesi
con le truppe, fece vela verso la Provincia Narbonese, ma il procuratore di
questa regione, ch'era amico di Vespasiano, lo fece catturale alle isole Stecadi
e mettere a morte. Il suo capo venne mandato ad Arimino (Rimini) e mostrato alle
legioni vitelliane che la difendevano.
Ormai Vitellio non poteva fare assegnamento che sulle coorti dei pretoriani,
sulla flotta di Miseno e su poche altre truppe, che sarebbe stato difficile alle
legioni germaniche forzare i valichi delle Alpi guardati dalle soldatesche
pannoniche. L'imperatore ordinò che quattordici coorti pretorie andassero a
fortificarsi nell'Umbria per ostacolare la discesa alle milizie di Antonio. Il
campo fu posto a Mevania (Bevagna) dove anche Vitellio si recò; ma vi rimase
poco. Saputo che la flotta di Miseno si era ribellata e i marinai avevano
occupato Terracina e Puteoli, fece levare il campo e si mise in marcia alla
volta di Roma. A Narni lasciò i due prefetti del pretorio con parte delle
truppe, e col resto si ridusse alla capitale. Appena giunto, mandò il fratello
in Campania per domare la ribellione; poi diede ordini che si arruolassero
soldati tra la popolazione di Roma. Nel frattempo Antonio Primo scendeva
attraverso la penisola e giungeva a Corsule, a dieci miglia da Narni. I
Pretoriani lasciati da Vitellio, vedendo che non era possibile una resistenza
contro le forze avversarie soverchianti, passarono al nemico; i prefetti
fuggirono a Roma.
Vitellio allora si vide perduto e non pensò che a salvare la vita sua e dei
suoi. Prefetto della città era Flavio Sabino, fratello di Vespasiano: per mezzo
di questo, Vitellio concluse con Antonio un accordo col quale, rinunziando egli
all'' impero, gli veniva concesso di vivere da ricco privato in una villa della
Campania.
Era il 18 dicembre del 69. Poiché, per l'accordo intervenuto, non era più
necessario affrettarsi a marciare su Roma, Antonio si fermò ad Otricoli
per festeggiare con il suo esercito i Saturnali.
Quel giorno stesso Vitellio abbandonò la casa dei Cesari sul Palatino per
andare al Senato a deporre le insegne e il potere e recarsi poi all'abitazione
del fratello. Già tutta la città sapeva dell'abdicazione, il console Quinzio
Attico aveva pubblicato un editto in lode di Vespasiano e pieno di insulti
contro Vitellio mentre la casa di Flavio Sabino (fratello di Vespasiano)
era piena di senatori e cavalieri e custodita dalle coorti urbane e dai vigili.
Ma i pretoriani, che si trovavano a Roma, e il popolino che amava Vitellio per
la prodigalità e le feste che soleva dare, avevano mostrato grande malcontento
alla notizia della rinunzia di Vitellio all'impero e crebbe in breve a tal punto
il loro malumore che decisero di protestare vivamente e di fare annullare
l'accordo.
Col popolo e coi pretoriani tumultuanti si incontrò per via Vitellio e fu
costretto a tornare alla casa dei Cesari. Flavio Sabino volle fare rispettare i
patti e uscì alla testa delle scarse truppe di cui disponeva; ne seguì una
zuffa violenta in cui i partigiani del nuovo imperatore ebbero la peggio e a
stento Flavio Sabino col nipote Domiziano, il console Attico e un grosso
drappello dei suoi riuscì a salvarsi rifugiandosi nella rocca capitolina dalla
quale spedì messi ad Antonio Primo per informarlo degli avvenimenti.
I pretoriani posero l'assedio alla rocca, malmenarono un messo che Sabino
inviava a Vitellio per ricordargli i patti, poi diedero l'assalto alla fortezza
e per la rupe Tarpea giunsero al tempio di Giove e lo incendiarono. Atterriti
dalle fiamme, alcuni tra i difensori della rocca, fra cui Domiziano, riuscirono
a fuggire, gli altri invano si opposero con accanimento alla furia dei
nemici che, penetrati nelle mura, fecero orribile strage dei seguaci di
Vespasiano.
Flavio Sabino e Quinzio Attico, ricoperti di catene, furono trascinati davanti
al palazzo dei Cesari, e al cospetto di Vitellio, impotente a frenare l'ira
popolare, il fratello di Vespasiano fu trucidato e il suo cadavere venne gettato
nei rifiuti.
Intanto, per la via Flaminia, Antonio Primo accorreva in aiuto di Sabino; giunto
ai Saxa Rubra apprese la fine miseranda di Flavio e decise di vendicarla.
Della tremenda vendetta temeva pure Vitellio. Egli cercò di guadagnar tempo
inviando ad Antonio ambasciatori e Vestali a pregarlo di concedergli almeno un
giorno per venire ad un accordo. Ma dopo la morte di Flavio non era più il caso
di riprendere le trattative.
Mille cavalieri al comando di Petilio Ceriale furono mandati innanzi di corsa,
ma a Porta Salaria stavano i pretoriani che contesero il passo all'avanguardia
nemica e la ributtarono indietro.
Avanzava intanto il grosso dell'esercito di Antonio diviso in tre corpi: uno
procedeva lungo il Tevere, l'altro per la via Flaminia, il terzo per la via
Salaria. Quest'ultima colonna incontrò la maggiore resistenza: i pretoriani,
protetti dai giardini, si difendevano accanitamente, ma quando videro che la
cavalleria di Antonio, entrata da porta Collina, minacciava di prenderli alle
spalle, si ritirarono, sempre combattendo verso il Campo Marzio, dove la lotta
continuò aspra e sanguinosa. Vani sforzi però erano quelli dei pretoriani.
Sloggiati anche di qua, si ridussero al loro campo di porta Nomentana, dove
tutti poi perirono con le armi nel pugno il 20 dicembre del 69.
Mentre
furiosa ferveva la lotta alle porte della città, Vitellio si teneva nascosto
nel palazzo imperiale. All'annunzio che il nemico si avvicinava uscì e si avviò
all'Aventino dove sorgeva la casa del fratello; due soli uomini lo
accompagnavano, il cuoco e il fornaio. Per via gli giunse la notizia che una
tregua era stata conclusa ed egli si lasciò ricondurre alla casa dei Cesari,
che trovò deserta.
Ma falsa era la notizia e si facevano sempre più vicini il rumore delle armi e
le grida dei vincitori. Allora Vitellio, abbandonato da tutti, sì cinse una
fascia piena di monete d'oro, si rifugiò nella cella del portinaio, legò un
cane davanti alla porta e dietro questa mise il letto. Vana precauzione! Venne
scoperto e riconosciuto dai soldati di Antonio. Cercando di sfuggire alla morte,
l'imbelle principe implorò la salvezza e disse di avere segreti importantissimi
da rivelare a Vespasiano, ma non fu creduto e non trovò misericordia. Gli
vennero legate le mani dietro la schiena, gli fu messa una grossa fune al collo
e mezzo ignudo per la via Sacra fu trascinato al Foro, fra due fitte ali di
popolo che lo facevano bersaglio di lazzi e d'ingiurie.
Al Foro gli annodarono i capelli dietro la nuca come si soleva fare ai
delinquenti; alcuni gli alzarono il mento con la punta della spada perché la
sua faccia si vedesse meglio; altri gli gettarono addosso dello sterco
chiamandolo ghiottone; altri ancora gli rinfacciarono i suoi difetti fisici,
poiché era di altissima statura, aveva sempre il viso paonazzo dal troppo bere,
il ventre buzzo e un fianco debole per una ferita riportata guidando un cocchio
con Cajo Caligola.
Infine fu finito presso le gemonie, e dopo essere stato seviziato con
numerosissimi colpi, di là fu tratto con un uncino e buttato nel Tevere (Svetonio).
Vitellio aveva cinquantasei anni
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