Salvio
Otone era appena salito metaforicamente sul primo gradino del trono, quando
giunse a Roma la notizia che Vitellio
era stato acclamato imperatore dalle legioni della Germania Inferiore.
Dapprima Otone tentò di persuadere Vitellio a deporre l'imperio datogli dalle
truppe, poi gli chiese in moglie la figlia e gli promise onori e ricchezze, ma
poiché il rivale gli rispondeva invitandolo a sua volta con molte promesse a
lasciargli il supremo potere, Otone stabilì di affidare la decisione alle armi.
Egli aveva dalla sua le legioni d'Africa, dell'Egitto, della Giudea, della
Siria, del Danubio, della Spagna e dell'Aquitania, e se fin da principio ne
avesse richiamata una parte avrebbe senza dubbio impedito all'esercito
avversario l'ingresso in Italia.
Ma
Otone indugiò parecchio e soltanto quando si accorse che la guerra non poteva
essere evitata chiamò le legioni danubiane e ne costituì due nuove con i
gladiatori e gli schiavi.
Si erano schierate con Vitellio oltre che le truppe delle due Germanie, quelle
della Britannia, della Gallia Belgica, della Gallia Lugdunense e della Rezia;
cosicché un potente esercito di settantaduemila uomini marciava verso l'Italia.
Esso era diviso in due corpi: uno di trentaduemila soldati, al comando di Fabio
Valente, entrava in Italia per il valico del Cenisio; l'altro di quarantamila,
guidato da Cecina Alveno, facendosi strada attraverso il paese ostile degli
Elvezi, raggiunta Martigny, passava le Alpi per il valico del Gran San Bernardo.
Dietro venivano le riserve sotto il diretto comando di Aulo Vitellio.
All'annuncio dell'avanzarsi delle truppe avversarie, Otone lasciò al governo di
Roma suo fratello Salvio Tiziano, convocò in solenne assemblea il Senato e il
popolo, sacrificò alle divinità, prese con sé Lucio Vitellio, fratello del
suo nemico e parecchi magistrati ed uomini consolari che dovevano servigli da
ostaggi più che da compagni, e partì dalla città.
Come quello nemico, così il suo esercito era diviso in due parti, una delle
quali con la flotta doveva assalire le coste della Gallia. Se si eccettui
Licinio Proculo, prefetto dei pretoriani, l'esercito di Otone era fornito di
eccellenti comandanti: Svetonio Paulmo, Marco Celso, Annio Gallo, Marcio Macione
e Spurinna. Mancava, però, un capace generalissimo: ma non in migliori
condizioni si trovava l'esercito di Vitellio tra i cui capi non correvano buoni
rapporti (inoltre Vitellio personalmente con c'era)
L'andamento della guerra pareva che fosse favorevole a quelle di Vitellio: la
Spagna e l'Aquitania lo avevano riconosciuto imperatore e i presidi della
regione transpadana si erano schierati in suo favore; inoltre in qualche
scaramuccia di avanguardie i suoi avevano avuto facilmente ragione dei nemici.
Saccheggiata difatti la Liguria, questi vinsero Valente tra Antipoli (Antibes)
ed Albigauno (Albenga); il presidio di Piacenza, comandato da Spurinna, assalito
da Cecina, al cui fianco cavalcava la moglie Solonina, si difese valorosamente e
costrinse il nemico a ripassare il Po e dirigersi alla volta di Cremona; nelle
vicinanze di questa città Marcio Macione, traversato il fiume, assalì
improvvisamente le milizie di Cecina e inflisse loro un notevole scacco.
Per rifarsi delle sconfitte patite Cecina cercò di far cadere il nemico in un'
insidia, ma Svetonio Paulino la sventò e, venuto a battaglia coi vitelliani,
procurò loro una grave disfatta che si sarebbe mutata in un irreparabile
disastro se il duce degli otoniani avesse sfruttato la vittoria inseguendo i
vinti.
Furono questi successi dell'esercito di Otone che consigliarono Valente e Cecina
di mettere da parte le gelosie e riunire le loro forze. Buona armonia non
regnava invece tra i comandanti otoniani e discordi erano i loro pareri sulla
condotta della guerra: Svetonio Paulino, Annio Gallo e Spurinna volevano che si
temporeggiasse in attesa dell'arrivo delle legioni della Dalmazia e della
Pannonia che avrebbero minacciato le spalle e il fianco sinistro del nemico,
invece Salvie Tiziano, che da Roma si era trasferito al campo, Proculo e lo
stesso Otone, imbaldanziti dai primi successi, erano di parere che si dovesse
dar senza indugio battaglia al nemico e porre fine sollecitamente alla guerra.
Prevalse il parere di questi ultimi: Otone, con parte delle troppe, dietro
consiglio di alcuni dei suoi generali, si ritirò a Brixellum (Brescello), il
grosso dell'esercito si mise in marcia verso il nemico tra Bedriacum e Cremona.
Tra
il Po e l'Adige ebbe luogo furiosa e cruenta battaglia che a Otone doveva
costare l'impero. I suoi soldati erano ancora in marcia e affaticati dal cammino
quando si videro costretti ad accettare il combattimento dal nemico di gran
lunga superiore di numero. Pur tuttavia gli otoniani si batterono con grande
bravura e la legione della marina assalì con tanto furore la XXI Legione di
Cecina da ributtarla e toglierle l'aquila.
Ma i vitelliani ritornarono all'attacco, respinsero sanguinosamente i marinai,
tolsero loro parecchie insegne e uccisero il comandante Orsidio Benigno. Allora
la battaglia cominciò a volgere in favore di Vitellio. Stanco, sfiduciato e
decimato dopo aspra e non breve lotta, l'esercito di Otone ripiegò su Bedriacum.
Quarantamila uomini giacevano sul campo di battaglia.
Il giorno dopo i resti dell'esercito otoniano aprivano il campo alle truppe di
Vitellio e facevano causa comune con loro.
Malgrado ciò non tutto era perduto per Otone: gli rimanevano la guarnigione di
Piacenza e le milizie condotte con sé a Brescello, inoltre gli giungeva la
notizia che le legioni del Danubio erano arrivate ad Aquileja. Un uomo dotato di
tempra più forte avrebbe deciso di resistere e di preparare la riscossa; Otone
invece si perse d'animo, si considerò senza scampo perdente e stabilì di darsi
la morte.
Bruciò tutte le lettere che potevano compromettere i suoi amici, consigliò i
soldati di affrettarsi a fare atto di sottomissione a Vitellio, non volle dare
ascolto agli incoraggiamenti di chi lo incitava a resistere, scrisse una lettera
alla sorella ed un'altra a Statilia Messalina, vedova di Nerone, che aveva
intenzione di sposare, distribuì ai suoi servi il denaro che aveva e, presi due
pugnali, si ritirò nella sua camera. Dormì tranquillamente alcune ore.
Svegliatesi durante la notte, si vibrò una pugnalata sotto la mammella sinistra
nella notte del 16 aprile del 69
Aveva trentasette anni. Il suo impero era durato novantacinque giorni.
Al corpo del morto imperatore non vennero fatte esequie solenni, ma i soldati
che avevano imparato ad amare il giovane imperatore ne piansero la morte, gli
baciarono, prima che fosse arso, le mani ed i piedi e non pochi -si dice- per il
dolore perirono volontariamente tra le fiamme del rogo.
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