Mentre
Vespasiano in Giudea ha già rallentato le operazioni di assedio di Gerusalemme,
per seguire gli avvenimenti politici a Roma dopo la morte di Nerone
(e già le sue truppe in Galilea lo hanno proclamato imperatore), in Gallia
Galba, dopo essere stato anche lui informato della morte da Icelo, e dopo aver
sconfitto Vindice che aveva anche lui certe ambizioni alla porpora, iniziò a
marciare alla volta di Roma dove vi giunse nell'ottobre e disponendo di un forte
esercito (anche se poco fidato), il Senato allarmato gli concesse i poteri
imperiali.
Le legioni che risiedevano nelle province quasi tutte riconobbero il nuovo
imperatore e più sollecitamente delle altre quelle della Gallia, un po' meno
nelle Legioni sul Reno che rifiutarono di riconoscerlo e proclamarono per
acclamazione il loro comandante Vitellio, che forte di un esercito iniziò anche
lui a muoversi per scendere su Roma.
Vespasiano invece dalla Galilea inviò presso Galba il figlio Tito per ricevere
istruzioni.
Galba aveva fatto questo grande passo alla maniera di Giulio Cesare, ma la
situazione del nuovo principe non era delle più floride; malgrado vantasse
discendenza divina, mancava a lui quel prestigio che ai suoi predecessori era
dato dalla famiglia di Augusto né questa mancanza era compensata da grande fama
e da popolarità. Era un militare. Si aggiunga che Galba non disponeva di un
numero considerevole di truppe fidate, che in grave deficit era il bilancio
dello Stato e che molti erano gli appetiti di coloro che a Roma lo avevano
appoggiato appena era comparso nella capitale.
I primi atti del nuovo imperatore ci rivelano un uomo di corte vedute, privo di
tatto, e di gretta politica. Egli è dotato di una certa energia ma non ne ha
tanta quanta ne occorrerebbe al capo di un impero così vasto; la sua è
un'energia di vecchio soldato che se può bastare per il governo di una piccola
provincia o per il comando di un gruppo di legioni è però insufficiente e
inadatta per un organismo politico, amministrativo e militare così grande,
complesso e multiforme come era l'impero romano che nonostante le varie crisi,
era pur sempre organizzato con l'impronta che gli aveva dato Cesare prima e
Augusto poi.
Gli fa anche difetto a Galba il senso dell'opportunità tanto necessaria
per i tempi in cui egli vive, per gli uomini fra i quali deve governare; e per
un principe che non ha largo seguito e basi sicure.
Galba credette di agire con accortezza premiando le popolazioni che avevano
risposto all'appello di Vindice, alle quali condonò un quarto dei tributi e
concesse la cittadinanza romana, ma punì sconsideratamente e severamente
Lugdunum e le altre città, che non avevano preso parte alla rivolta, cui
confiscò parte dei beni. E questo provocò il malcontento delle legioni di Rufo
che in quei provvedimenti videro una disapprovazione chiarissima alla loro
azione.
Errori ne commise molti poi anche a Roma; invece di premiare Ninfidio Sabino che
gli aveva preparato il terreno favorevole, e che chiedeva la prefettura
del pretorio a vita, se lo inimicò negandogliela, anzi dando il comando
dei pretoriani a Cornelio Lacene. Ninfidio cercò di ribellare le sue ex coorti
all'imperatore, ma queste forse per opportunismo rimasero fedeli a Galba e
misero a morte il sobillatore. Un console designato, accusato di complicità con
Ninfidio, fu ucciso anche lui per ordine di Galba. Né fu il solo a perire: due
capi militari che non avevano voluto riconoscere il nuovo imperatore, Fontejo
Capitone e Clodio Macro governatore d'Africa, perdettero la vita.
L'amministrazione della cosa pubblica la abbandonò nelle mani di Tito Vinio
Bufino, Cornelio Lacone e Icelo, uomini avidi ed arroganti che vendettero favori
e privilegi, impunità e condanne e contro il desiderio del popolo che chiedeva
si punissero Aloto e Tigellino, i sicarii neroniani, quest'ultimo lo protessero
e al primo concessero un lucrosissimo impiego.
Ai pretoriani - che lo avevano appoggiato sollecitati proprio da Ninfidio e che
erano stati promessi lauti donativi (30mila sesterzi): Galba, che era noto per
la sua avarizia, disse loro con arroganza che era sua abitudine arruolare i
soldati non comprarli. Fiera risposta in verità e degna di un romano antico, ma
inopportuna e dannosa in un tempo in cui le coorti pretorie avevano in pugno il
destino di un imperatore.
A Roma si trovava una legione composta di marinai che Nerone aveva tolti alla
flotta di Miseno: Galba ordinò che questi tornassero alle navi, e li invitò a
lasciare le aquile e le insegne a Roma, e al rifiuto di questi li fece caricare
dalla cavalleria. La strage della legione marina suscitò un vivissimo
malcontento nella I Legione Adiutrix, che era anch'essa composta di marinai, che
l'imperatore aveva condotti dalla Spagna.
Così Galba si alienava gli animi delle poche truppe sulle quali in caso di
bisogno avrebbe potuto e dovuto contare e, non comprendendo che la sua vera
forza era riposta in esse, licenziò senza premio la guardia germanica
accampando come pretesto la devozione che queste milizie nutrivano per Gneo
Dolabella, e rimandò in Spagna proprio quei legionari che lo avevano acclamato
imperatore.
Innalzando il vessillo strappato alla rivolta, Galba aveva dichiarato di volere
essere il legato del popolo e del Senato, dando, come Giulio Vindice, al moto un
carattere repubblicano; salito sul trono dell'Impero, anziché dare autorità al
Senato, mostrò il proposito di volere accentrare nelle sue mani tutti i poteri,
facendo svanire le speranze dei senatori e, con questo, le loro simpatie per il
nuovo imperatore.
Fra tutti gli errori commessi, quello che doveva trarlo alla rovina fu il
trattamento fatto a Virginio Rufo. Vedendo in lui un futuro competitore, Galba
lo richiamò dalla Germania superiore e mandò al suo posto il vecchio e gottoso
Ordeonio Flacco.
Le legioni, che erano state di Rufo, il 1° gennaio del 69, quasi per protesta,
si rifiutarono di prestare giuramento di fedeltà a Galba e fecero comprendere
che loro volevano un principe eletto dal Senato e dal Popolo. Qualche giorno
dopo, le legioni delle Germania inferiore, di cui era stato capo Fontejo
Capitone, acclamarono il loro generale Aulo Vitellio imperatore e che venne
riconosciuto tale dall'esercito dell'Alto Reno.
Galba per conquistare il favore del Senato e far sì che non sorgessero
aspiranti all'impero, pensò di designare un successore e, poiché non aveva
figli, adottò Cajo Pisone Liciniano, giovane di trentadue anni, di severi
costumi e discendente da Pompeo e da Crasso.
Il 10 gennaio Galba presentò il figlio adottivo al Senato e al campo dei
pretoriani, ma se quello fu contento della scelta, lieti non potevano essere
questi che già credevano di avere acquistato il diritto di nominare gli
imperatori e con quell'adozione se lo vedevano sfuggire di mano. Inoltre la
severità di costumi del designato non era una qualità che potesse piacere ai
pretoriani e al popolo, amanti dei donativi e delle feste.
Del malcontento delle soldatesche e del
popolo approfittò un uomo ambizioso e carico di debiti. Era questi Salvio Otone,
marito di Poppea, che per vendicarsi di Nerone aveva subito aderito al movimento
di Galba e sperava di esserne il successore. Avendo visto, con l'adozione di
Pisone Liciniano, fallire le sue speranze ed essendo premuto dai debitori, Otone
formò l'audace disegno di impadronirsi del supremo potere con una congiura.
Aiutato dal liberto Onomasto, guadagnò alla sua causa quindici pretoriani, a
ciascuno dei quali regalò mille sesterzi. Questi a loro volta procurarono ad
Otone altri aderenti dentro le coorti pretorie, ma non erano molto sicuri che,
giunto il momento,altri si sarebbero uniti a loro.
Il 16 gennaio del 69 Galba faceva un sacrificio nel tempio di Apollo, quando nel
Foro, presso la pietra miliare dorata, un esiguo nucleo di pretoriani acclamò
Otone imperatore e lo portò in lettiga al campo di porta Nomentana, dove le
coorti si dichiararono, pronte a seguirio.
Saputa la notizia, Galba mandò alcuni tribuni militari perché riducessero
all'obbedienza le coorti pretorie e diede incarico a Pisone Liciniano di curare
che la rivolta non si propagasse alla guardia del palazzo. Le vie della città
intanto si riempivano di popolo, il quale, forse spinto dai senatori che non
approvavano il moto, forse perché si era sparsa la voce che la sedizione era
stata domata, improvvisò una dimostrazione di simpatia al vecchio imperatore e
volle accompagnarlo al Foro.
Ai ribelli si erano uniti i marinai e le legioni; tutte queste truppe comandate
da Salvio Otone entrarono in Roma. Galba non aveva nessun corpo di soldati da
poter opporre ai sediziosi; c'era il popolo dalla sua, ma il popolo che lo
accompagnava acclamante verso il Foro quando vide le soldatesche ribelli si
dileguò e la lettiga imperiale venne circondata dai soldati.
Galba, tratto fuori a forza, ricevette un colpo di spada nella gola. Stramazzato
al suolo, il corpo del povero imperatore fu straziato dalla soldataglia
inferocita.
Morto Galba, sui suoi consiglieri ed amici si sfogò la furia dei rivoltosi.
Tito Vinio fu trovato davanti il tempio di Cesare e, nonostante gridasse di aver
preso parte alla congiura, fu trucidato. Pisone, ferito in varie parti del
corpo, era riuscito a rifugiarsi nel tempio di Vesta con l'aiuto di un suo
fedele centurione, ma, raggiunto, fu trascinato fuori e nell'atrio venne ucciso.
Il popolo (come spesso capita) prese allora le parti del vincitore e cominciò a
gridare: "Otone Cesare Augusto» e il Senato, stupito dalla rapidità degli
avvenimenti, si affrettò a radunarsi nel Campidoglio per ratificare la elezione
del nuovo imperatore.
Le teste di Galba, di Pisone e di Vinio, staccate dal corpo e infisse su picche
vennero dai soldati portate in trionfo per la città; il giorno dopo quella di
Galba fu trovata presso la tomba di Patrobio, che l'imperatore aveva fatto
uccidere, e fu sepolta con le ceneri del corpo.
Degli altri amici di Galba, Aulo Lacone fu mandato in esilio e poi messo a
morte, Icelo venne giustiziato, Marco Celso invece fu salvo e ricevette molti
onori. Tigellino non ebbe scampo e si uccise. Otone, salito sul trono dell'
impero per opera dei pretoriani, lasciò ad essi la nomina dei loro comandanti e
del prefetto di città. A questa carica venne innalzato Flavio Sabino fratello
di Flavio Vespasiano che comandava le legioni della Palestina, prefetti delle
coorti pretorie furono fatti Plozio Firmo e Licinio Proculo.
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