A
Vespasiano successe il
figlio Tito che il padre stesso aveva designato.
Tito era nato il 29 dicembre del 41, l'anno in cui era morto Caligola,
ed era stato educato con Britannico cui lo legava un'amicizia profonda.Di lui
dice Svetonio:
Aveva un bell'aspetto, pieno di dignità e di grazia; una forza
straordinaria sebbene non fosse molto alto e avesse il ventre grosso; una grande
inclinazione a tutte le arti della guerra e della pace. Una memoria
meravigliosa, molta abilità nel maneggio delle armi e dei cavalli, una
conoscenza profonda delle lettere greche e latine, ed una sorprendente facilità
nello scrivere poesie in queste lingue e nell'improvvisare. Si intendeva anche
dl musica; cantava e suonava con leggiadria e perizia.
Tribuno militare in Britannia e in Germania, si era acquistata fama di valoroso.
Prudente guerriero; per breve tempo e con successo si era dedicato al Foro;
aveva ricoperto la carica di questore; nominato comandante di una legione, era
stato mandato in Giudea dove aveva espugnato Tarichea e Gamala e tornato a Roma
dopo la guerra giudaica, in cui aveva dato prove magnifiche di valore e di
tenacia, era stato sempre al fianco del padre nel governo dell' impero. Collega
del padre era stato infatti nella censura, nella potestà tribunizia e in sette
consolati e in nome di Vespasiano
era solito dettare lettere e firmare i decreti.
Ma Tito saliva al potere preceduto da una cattiva fama. Lo si credeva avido di
ricchezze perché, imitando il padre, cercava con tutti i mezzi di restaurare
l'erario; crudele perché in guerra non risparmiava i nemici e, in pace, era
spietato con gli avversari di Vespasiano
(era stato lui a fare uccidere Cecina); dissoluto perché fino a tarda ora della
notte era avvezzo a gozzovigliare con viziosi compagni; lussurioso perché si
circondava di eunuchi e conviveva con la regina Berenice, sorella di Erode
Agrippa.
Salito all' impero, Tito volle smentire la sua fama e tanto vi riuscì che fu
chiamato amore e delizia del genere umano. Tenne lontani da sé i mimi, i
ballerini e gli antichi compagni di crapula, rifiutò i doni com'era
consuetudine si facevano agli imperatori, sebbene innamorato pazzo di Berenice
la rimandò in Oriente, beneficò con le proprie sostanze quanti si rivolgevano
a lui e non rimandò mai indietro nessuno senza dargli una speranza. Soleva
dire: "Non è giusto che alcuno vada via scontento dopo una udienza avuta
con un principe" e ricordandosi, una volta nel porsi a tavola di non
aver beneficiato nessuno quel giorno, esclamò: "Ecco una giornata
perduta!".
Si acquistò molto il favore del popolo con le elargizioni, gli spettacoli e i
suoi modi democratici. Nelle terme da lui costruite ammise la plebe anche quando
vi era lui a prendere il bagno; diede spettacoli gladiatori e naumachie, terminò
la costruzione del Colosseo
e lo inaugurò con grandiose feste che durarono cento giorni: in un solo giorno
fece combattere nell'arena cinquemila belve.
Disarmò la diffidenza del Senato abolendo i processi di lesa maestà, ordinando
punizioni per i delatori, confermando le cariche e i privilegi e prescrivendo
che in una medesima accusa non fosse lecito valersi di leggi diverse e che,
trascorso un certo numero di anni, non si indagasse più sulla condotta
passata dei defunti. Accettò il pontificato massimo dicendo di voler tenere
pulite le mani; e mantenne la parola sebbene non gli mancassero le occasioni di
punire giustamente.
Due patrizi avevano congiurato contro di lui: scoperti e denunciati Tito li
rimproverò soltanto dicendo loro che l'impero è un dono della sorte, poi li
invitò a pranzo, li fece sedere ai suoi fianchi in uno spettacolo di gladiatori
e per mostrare che non temeva di essere ucciso mise nelle loro mani due spade
perché le esaminassero; mandò inoltre un corriere alla madre di uno di essi
per rassicurarla che il figlio non aveva nulla da temere.
Suo fratello Domiziano,
avido di regnare, più volte tentò di mettergli contro le truppe: Tito non lo
punì mai, lo trattò sempre affettuosamente e lo considerò come collega e suo
successore.
Il breve impero di Tito fu funestato da gravissime calamità che contribuirono
ad accrescere la fama di principe buono e generoso che aveva.
Il 6 febbraio del 63 un terremoto aveva scosso la Campania producendo gravi
danni alla città di Pompei; un altro terremoto nel 76, aveva colpito Ercolano.
Erano questi i lontani annunzi del disastro che nel 79 doveva funestare la
regione distruggendo tre città.
II 23 agosto di quell'anno, precisamente due mesi dopo l'avvento di Tito
all'impero, una nube, enorme, simile ad un immenso pino, squarciata da frequenti
lampi; sormontò improvvisamente la sommità del Vesuvio e l'aria echeggiò di
cupi boati, il naturalista Plinio, comandante della flotta, che si trovava a
Misenum, volendo osservare da vicino il fenomeno, ordinò che gli si preparasse
un battello, e stava per lasciare la casa quando gli giunsero richieste di
soccorsi. Plinio fece mettere in mare le quadriremi e, imbarcatesi, accorse
verso i luoghi minacciati dall'eruzione mentre fuggivano spaventati gli
abitanti. Sulle navi cadeva una pioggia rovente di cenere e di lapilli; Plinio
approdò a Stabiae e di là volle ammirare il tremendo spettacolo; dal cratere
del vulcano la lava colava a valle come un immane torrente che tutto
distruggeva al suo passaggio, sanguigno era il ciclo contro cui s'avventavano le
infuocate materie violentemente eruttate mentre la terra tremava. L'aria era
irrespirabile a causa dei gas venefici che si sprigionavano dai lapilli del
Vesuvio. Avvicinandosi il pericolo, Plinio tentò di porsi in salvo con la fuga,
ma il mare era tempestoso e l'imbarcazione sulla quale il naturalista era salito
fu costretta a ritornare alla riva dove egli morì asfissiato. Con lui periva
Stabia e venivano sepolte Ercolano e Pompei; la prima dalla lava che scendeva a
valle dopo giorni e giorni di pioggia, la seconda da un alto strato di cenere.
Saputa la notizia dell'immane disastro, Tito mandò dei consolari in Campania
con viveri e denari e per soccorrere i danneggiati ordinò che a questi
venissero distribuite le sostanze dei cittadini senza eredi periti nell'eruzione
del Vesuvio.
L'anno dopo (80) un terribile incendio scoppiò a Roma distruggendo i teatri di
Pompeo e di Balbo, la Biblioteca di Augusto, le Terme di Agrippa, e sei templi,
fra cui il Pantheon e
quello di Giove Capitolino di recente costruzione:
Dopo l'incendio, una peste, che aveva fatta la sua comparsa sotto Vespasiano,
tornò ad infuriare in tutta l'Italia e Tito si prodigò per venire in aiuto dei
colpiti, mettendo a disposizione dell'infelice penisola la cassa dello stato e i
suoi beni privati.
Nella villa di Rieti, dove era morto Vespasiano,
il 13 settembre dell'81, dopo due anni, due mesi e venti giorni di regno, nel
quarantunesimo anno di età, moriva Tito.
L'annunzio della sua morte piombò nel più grave lutto l'impero e i senatori,
accorsi nella Curia prima di essere convocati, resero al morto imperatore tanti
elogi e ringraziamenti quanti non ne ne aveva mai ricevuti in vita.
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