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Francesco Borromini

 

Francesco Borromini faticò molto, dopo anni di lavoro sottovalutato dietro le quinte, all’ombra di Carlo Maderno e di Bernini, per affermare il suo talento artistico non da artigiano ma da architetto. Nascendo presso il lago di Lugano, da figlio e nipote d’arte, assorbì quasi geneticamente la tradizione degli abili capimastri e scalpellini ticinesi, architetti e scultori, attivi in tutta Europa dal Medioevo all’età moderna. Formatosi sui monumenti medievali lombardi e giunto poi a Roma, Francesco studiò l’architettura classica. Dell’Antico lo attrassero le varianti e non le regole: la parete curvilinea angolare, la superficie continua ininterrotta. Ottenne infatti i risultati migliori spezzando il rettilineo e rendendolo curvo nel profilo mistilineo, rompendo nelle superfici murarie la rigida volumetria geometrica. Della Domus Aurea, da cui Francesco annotò elementi in un fascicolo di appunti, e di Villa Adriana, della quale mostrò di ricordare un ambiente delle piccole terme nel disegnare la pianta e le nicchie di Santa Maria dei Sette Dolori, lo affascinarono le combinazioni mistilinee. Superate le norme dell’architettura antica, Borromini stravolse il linguaggio classico, usando da maestro quegli elementi in modo antitradizionale ed eversivo. Dall’arte bizantina carpì la spiritualità della luce per ottenere effetti suggestivi, giocando con i simboli per rendere pregnanti le strutture. Elementi gotici come i costoloni intrecciati nella volta della Cappella dei Re Magi nel Palazzo di Propaganda Fide o a S. Maria dei Sette Dolori furono reinventati con un’insolita funzione decorativa. Borromini studiò anche l’architettura di Brunelleschi e di Michelangelo: ma lì dove questa distingue e moltiplica, egli fonde e aggiunge. Le decorazioni, sovrabbondanti e smisurate, si trasmutano, per processo metamorfico, in struttura, in dialettica tra paradosso e ironia, nel gusto barocco della meraviglia. Esempio è il portale interno di palazzo Carpegna: la cornucopia diventa capitello e il contrasto esalta le singole caratteristiche, fuse in un tutto organico biologico. L’effetto è raggiunto, in simbiosi tra interno e esterno, con l’uso di materiali poveri come il nudo laterizio, il travertino, lo stucco, l’intonaco. Nella chiesa di Sant’Ivo del complesso dello "Studium Urbis", Borromini dà l’impressione di vincere il peso di gravità col dinamismo ascensionale che sembra avvitare il cielo, in un ritmo vibrante animato dalla luce, innalzando un’originalissimo inno alla Sapienza Divina e ai papi promotori dell’erezione della fabbrica. Geniale fu la sua inventiva nel ricavare una pianta, senza precedenti, dal simbolico incrocio di due triangoli, ottenendo al contempo nel triangolo una metafora della Trinità e nell’esagono quella del savio Salomone e quindi della Divina Sapienza. Un ulteriore rimando è all’ape dello stemma Barberini di Urbano VIII, durante il papato del quale fu avviata la costruzione della chiesa. Rivoluzionaria è la concezione della lanterna dalla polivalenza semantica: anti-torre di Babele pagana sormontata dalla croce in cima alla guglia; colonna di fuoco – guida divina del popolo ebraico nell’Esodo – o della Chiesa cattolica; conchiglia come creazione della natura che riflette la perfezione divina; montagna sacra (mitico Olimpo o Purgatorio dantesco) come percorso spiraliforme della conoscenza filosofica, in ascesa verso la conquista del sapere, spinta dall’anelito spirituale, che culmina nella corona di fiamme rappresentante la Carità (inscindibile dalla Sapienza) attuata da sant’Ivo e incarnata dal papa, vicario di Cristo scelto dallo Spirito Santo (= Sapienza Divina/Carità). La decorazione plastica dell’elica sul cupolino della lanterna, ritmata da corte paraste, imita infatti le gemme e le perle sul triregno del pontefice o tiara con tre corone sovrapposte, simbolo della triplice autorità papale in quanto padre dei sovrani e monarca, rettore dell’orbe e vicario di Cristo. Anche nella decorazione a stucco all’interno della cupola di Sant’Ivo, Borromini esaltò i pontefici che sostennero il compimento della costruzione mediante gli elementi araldici del casato: Alessandro VII con i monti e la stella dei Chigi, Innocenzo X con l’emblema Pamphilj della colomba (con ramoscello d’ulivo), simbolo dello Spirito Santo che scese sugli apostoli per infondere la sapienza e apparsa prodigiosamente a Sant’Ivo, donandogli la parola divina. Perfino nei minimi dettagli decorativi Borromini racchiuse il simbolismo cristiano, con particolari allusivi al martirio dei santi Fortunato e Alessandro, titolari con Ivo della chiesa: corone e ghirlande d’alloro sempreverde e premio d’immortalità, foglie di palma per il trionfo sulla morte, gigli per anime pure e beate. La diffusione della grazia e della sapienza divina fino all’umanità, attraverso i vari gradi delle gerarchie angeliche, è sottesa nell’alta collocazione dei serafini (simboli di Carità) alla sommità della cupola e nell’inferiore disposizione sopra le finestre dei cherubini (simboli di Sapienza). Francesco è descritto dalle fonti: "torbido alquanto", geloso dei suoi disegni, vestito sempre di nero con parrucca, con un amore smodato per il suo lavoro, intransigente e in un perenne atteggiamento di sfida. Orgoglioso da rinunciare a doni preziosi e privilegi, in questo simile all’amico padre oratoriano Virgilio Spada. Dalla madre, sofferente di una grave forma di ipocondria, Borromini ereditò una certa tendenza alla depressione. Questo carattere difficile gli procurò con l’andare del tempo problemi con i committenti, amarezze e delusioni. Schiacciato dal successo professionale del Bernini – che bollò le forme fantastiche dell’architettura del rivale, del quale aveva sfruttato capacità e idee innovative – e oltremodo frustrato, Borromini offrì spesso gratuitamente la propria prestazione professionale. Poté comunque togliersi la soddisfazione, nei confronti del celebrato avversario, di veder demolita la Cappella dei Re Magi eretta dal Bernini, dopo che nel 1646 era stato nominato architetto della congregazione De Propaganda Fide. Molto dolore provocarono all’architetto ticinese le modifiche che subirono molti suoi progetti o l’impossibilità di realizzarli secondo la propria visione artistica. Questo si verificò nella sua maggiore commissione pubblica: il restauro della paleocristiana basilica Lateranense, mai completata dalla volta della navata centrale per la volontà di Innocenzo X di conservare le antiche strutture e il tetto del XVI secolo. Nella galleria di palazzo Spada – commissionatagli dal cardinal Bernardino, fratello del suo estimatore Virgilio – Borromini si esercitò, per delizia del committente, in una bizzarra fuga di colonne, deformate nella fuga prospettica (di appena cm 862), che lasciava apparire, nelle rapide sequenze di luce, le proporzioni della piccola statua sul fondo come, in realtà, non erano. Tutto ciò secondo speculazioni matematiche che daranno lustro alle sue idee. Con l’allontanamento di Borromini dalla direzione della fabbrica di Sant’Agnese in Agone, nel 1657, due anni dopo la morte di Innocenzo X, da parte del nipote, principe Camillo Pamphilj, ulteriori modifiche furono apportate ai disegni borrominiani, alterando i rapporti tra le parti architettoniche del progetto originario. Altro cruccio nacque dall’incompiutezza di Sant’Andrea delle Fratte, del cui completamento era stato incaricato dalla famiglia Del Bufalo, celebrata nell’ornamentale sineddoche plastica dell’araldica testa di bufalo sull’insolito campanile. Con l’acuirsi del suo disagio, il declino divenne inarrestabile, aggravato dal colpevole isolamento dei committenti e la personalità eccentrica ma sempre più fragile di Francesco cadde in balia di oscuri fantasmi. Lo stile inconfondibile ed erudito di Borromini era troppo personale per essere imitato - né egli lo avrebbe gradito. Soltanto pochi grandi nella storia dell’architettura trassero linfa dalle sue idee per elaborare opere altrettanto geniali. Lo spirito borrominiano era però così universale da sopravvivere per secoli dopo la sua morte: una trama lega indissolubilmente lo sviluppo elicoidale di Sant’Ivo alle cupole torinesi di Guarino Guarini fino al percorso avvolgente del Guggenheim Museum newyorkese di Wright, passando per l’utopico progetto del costruttivista russo Tatlin per la Terza Internazionale del 1919. A riprova che Borromini è ancora un rivoluzionario.

Biografia

Francesco Castelli detto Borromini nacque a Bissone sul Lago di Lugano nel 1599. Al seguito del parente arch. Carlo Maderno esordì come scalpellino in San Pietro (c. 1620) e collaborò col Bernini al Baldacchino (1630-32) e a palazzo Barberini (scala ellittica e finestre c. 1631). Progettò il capolavoro: la chiesa di San Carlino alle Quattro Fontane e il monastero dei Trinitari (1634-41; facciata ’64-67).
Trasformò palazzo Carpegna con la rampa elicoidale, il loggiato interno a pianterreno e il portale interno (1635-50). Progettò l’altare Landi e lavori di decorazione in S. Lucia in Selci (1637-38).
Stimato da Virgilio Spada, costruì l’Oratorio e il convento dei Filippini, a cui poi aggiunse la Torre dell’orologio (1637-49). Restaurò, ampliandolo e decorandolo, palazzo Falconieri in via Giulia (1646-49). Progettò per le Oblate agostiniane il convento e la chiesa di S. Maria dei Sette Dolori (1643-49). Realizzò Sant’Ivo alla Sapienza nello "Studium Urbis" (1642-60). Decorò palazzo Pamphili a piazza Navona (1645-50). Restaurò San Giovanni al Laterano (1646-50). Redasse con Virgilio Spada la relazione della fabbrica degli oratoriani: l’Opus architectonicum (c. 1648). A palazzo Spada ideò la galleria prospettica (1652-55) e due scale a spirale. Ricostruì la facciata di Sant’Agnese in Agone (1653-57). Ampliò il palazzo di Propaganda Fide (1646-62) e ricostruì la cappella dei Re Magi (1664). Completò Sant’Andrea delle Fratte col tiburio e il campanile (1653-67). Restaurò l’esterno del Battistero in Laterano (1657) e San Giovanni in Oleo (1658-59). Sue la decorazione della Cappella Spada in San Girolamo della Carità (c. 1662) e la Cappella Falconieri in San Giovanni dei Fiorentini (1664-67). Morì suicida a Roma nel 1667.