VESPASIANO

Morto a Roma Vitellio, della causa vitelliana rimase unico sostenitore il fratello che venne anch'egli ucciso.
Il 21 dicembre del 70 d.C. il Senato, anche se non era presente, conferì a Vespasiano tutti i poteri, compreso il legislativo, lo creò console insieme col figlio maggiore Tito, ad Antonio Primo diede le insegne consolari, e la pretura e l'imperio proconsolare a Domiziano che rimase a Roma a governare come rappresentante del padre.
Ma il suo fu più un governo nominale che di fatto: Roma era in mano di Antonio Primo, che permise alle soldatesche di saccheggiare molte case di ricchi sotto il pretesto di ricercare e punire i partigiani di Vitellio, e si impadronì di tutto ciò che di meglio si trovava nel palazzo dei Cesari. 

Il disordine in Roma durò fino all'arrivo di Licinio Muciano, che nella Mesia aveva dovuto fermarsi per ricacciare una invasione di Sarmati. Giunto a Roma, il luogotenente di Vespasiano ricevette gli onori del trionfo e fece cessare i saccheggi. Rimesso l'ordine, fece arrestare e poi uccidere Calpurnio Galeriano, figlio di Pisone Liciniano, fece mettere a morte il figlio di Vitellio e il liberto Asiatico, e temendo le troppe simpatie che si era guadagnate Antonio Primo, allontanò dalla capitale tutte le milizie che gli erano affezionate, indi ricostituì le coorti pretorie con i soldati di questo corpo che Vitellio aveva licenziato con elementi tratti dalle sue legioni d'Oriente.
Finalmente in Italia tacevano le armi, ma queste non avevano tregua in due punti opposti e lontani dell'impero, nelle province germaniche e nella Giudea. La guerra giudaica fu ripresa quando ad Alessandria Vespasiano seppe che Vitellio era stato sconfitto ed ucciso.
Gerusalemme era in balia delle discordie intestine. Tre uomini si contendevano il potere della città, la quale era divisa in tre fazioni: Simeone figlio di Giora, Giovanni di Giscala, ed Eleazar. Quest'ultimo con i suoi partigiani occupava il Tempio, il secondo era accampato presso la cinta esterna e ai passi del monte Moriah, Simeone era padrone della città alta. Ben presto Eleazar fu eliminato. Ricorrendo la Pasqua del 70 egli aprì ai fedeli le porte del Tempio, ma insieme con essi si introdussero alcuni seguaci di Giovanni i quali diedero mano alle armi e dopo una lotta sanguinosa si impadronirono del tempio uccidendo Eleazar.
Stavano così le cose in Gerusalemme quando Tito ricevette dal padre Vespasiano l'ordine di marciare sulla capitale della Palestina. Egli mosse da Cesarea con cinque legioni, alcune coorti dei presidi dell'Egitto e numerose schiere di ausiliari. Era l'aprile del 70 e per la ricorrenza della Pasqua molta gente era convenuta a Gerusalemme da Ogni parte della regione.
Tito credeva di trarre profitto dalle discordie intestine che travagliavano la città, ma all'avvicinarsi del nemico, le due fazioni si erano messe d'accordo e la conquista  di Gerusalemme, anche per il suo sistema di fortificazioni che si stendeva in un cerchio di una dozzina di chilometri, presentava serie difficoltà.
Il figlio di Vespasiano cinse d'assedio la città e fatti tagliare quasi tutti gli alberi del territorio circostante ordinò che si costruissero numerose macchine da guerra, poi cominciarono gli assalti.
La prima ad esser assalita fu la città bassa, chiamata Bezetha, cinta da un poderoso muro fornito di settanta torri. Non era un' impresa facile; le macchine, quotidianamente ostacolate dagli ostinati difensori, dovettero lavorare circa quaranta giorni per praticare una breccia nella cinta e nove giorni e nove notti i Romani furono costretti a combattere lungo le vie e nelle case per conquistare il quartiere della Bezetha.
Presa la città bassa, i Romani rivolsero i loro sforzi contro il quartiere di Acra che sorgeva sopra un colle munitissimo e che gli Ebrei difendevano con accanimento. Anche qui Tito dovette martellare senza tregua con le macchine le mura e solo dopo otto giorni e sanguinosissime mischie gli fu possibile impadronirsi del quartiere.
Rimaneva il grande colle sulla cui cima sorgeva il Tempio, custodito dalla fortezza di Sion e dalle torri Moriah e Antonia. Tito cercò di risparmiare i suoi soldati prendendo per fame gli assediati e nello stesso tempo ordinò che si costruisse un bastione che rendesse più facile la conquista della torre Antonia. Tre settimane furono impiegate in questo lavoro e, poiché gli Ebrei, malgrado la fame e le epidemie che tormentavano la città, rifiutavano di arrendersi, nei primi di luglio fu sferrato l'assalto che che fece cadere la torre nelle mani dei Romani. Questi iniziarono le operazioni contro il Tempio e, decisi com'erano ad espugnarlo, appiccarono il fuoco agli edifici vicini. L'incendio sviluppatosi si propagò così al Tempio e questo, quasi completamente distrutto, cadde l'8 di luglio nelle mani degli assedianti.
I difensori si ridussero nella fortezza di Sion e vi resistettero circa due mesi. Sion fu poi espugnata nei primi giorni di settembre. La città venne ridotta ad un enorme cumulo di rovine.
Si narra - ma le cifre sono certamente molto esagerate- che l'assedio costò agli Ebrei mezzo milione di morti e centomila prigionieri. Di questi quelli che non avevano superato il diciassettesimo anno di età furono venduti come schiavi, gli altri vennero inviati in Egitto a lavorare nelle miniere o mandati nelle varie città dell' impero per gli spettacoli dei gladiatorii o per le lotte contro le fiere. 
Simeone, Giovanni e i più ragguardevoli cittadini furono serbati per farli sfilare nel trionfo, dopo il quale il primo fu messo a morte e il secondo gettato in carcere.
La presa di Gerusalemme segnò la fine del regno giudaico. Al re Erode Agrippa II vennero lasciati i suoi possedimenti che, alla sua morte, furono annessi alla Siria. La Giudea fu eretta a provincia e ad Emmaus e a Cesarea vennero dedotte due colonie di veterani.
A perpetuare il ricordo della vittoria sugli Ebrei, sul Velia, a Roma, fu innalzato un arco, l'Arco di Tito e nei bassorilievi vennero raffigurati il suo trionfo, le spoglie conquistate e il generale coronato dalla dea Vittoria. Mentre i tesori del tempio ebraico sottratti alle fiamme vennero assegnate al tempio di Giove Capitolino che era in via di ricostruzione.

La guerra giudaica e quella contro i Galli e i Germani furono le principali che si combatterono durante l'impero di Vespasiano, ma non le sole. Un tentativo di rivolta in Africa fu stroncato sul nascere, una invasione di Daci nella regione alla destra del Danubio venne respinta e, infine, una ribellione provocata nel Ponto da un liberto del re Polemone di nome Aniceto fu domata dal generale Virdio Gemino e il ribelle, che si era rifugiato nella Colchide, venne consegnato ai Romani.

Mentre Tito assediava Gerusalemme (maggio del 70) Vespasiano si imbarcava ad Alessandria. Giunse a Brindisi il 21 giugno dopo  aver toccato Rodi e la Grecia, dove vi trovò Licinio Muciano e i più influenti senatori recatisi là a riceverlo. Entrò a Roma fra grandi dimostrazioni di gioia, veramente sentita, salvo i pochi malcontenti, da tutta la cittadinanza, che aveva sete di pace e bisogno di un buon imperatore e sapeva che finalmente aveva trovato l'una e l'altro.
E imperatore davvero degno di lode fu questo discendente di famiglia plebea, che si vantava della sua nascita oscura e si burlava di coloro che per adularlo volevano far risalire le sue origini  ad Ercole. Egli doveva tutto alle sue azioni e alla sua carriera di soldato e alla rigidità e disciplina militare improntò sempre i suoi atti di governo e della sua vita privata.
Spietato in guerra contro i nemici, fu generoso con gli avversari politici: diede una buona dote alla figlia di Vitellio, dimenticò le ingiurie passate e sopportò anche quelle successive provenienti da uomini stupidi e arroganti. Creò perfino console Mezio Pompesiano che non gli era rispettoso
e si credeva lui destinato all'impero perchè aveva il seguito di un certo popolino.
Fu invece inflessibile contro coloro che avversando lui potevano riuscire di pericolo alla pace dell'impero. Elvidio Prisco, nipote di Trasea Peto, di sentimenti repubblicani, che da pretore ometteva nei suoi editti il nome dell' imperatore, fu più di una volta diffidato e richiamato, poi mandato in esilio e infine messo a morte; ma anche lui Vespasiano lo avrebbe volentieri salvato se avesse fatto a tempo a intervenire. 
Eprio Marcello e Alieno Cecina, che tentarono di mettere i pretoriani contro l'imperatore, vennero uccisi e la medesima sorte ebbero Giulio Sabino e la sua famiglia. Sabino si spacciava per figlio di un bastardo di Giulio Cesare. Dopo la sconfitta e la sottomissione dei Lingoni si era rifugiato in una caverna dove visse per nove anni insieme con la fedele moglie Eponina che lo rese padre di due figli. Scoperti, furono tutti e quattro condotti a Roma poi uccisi. 
Al pari di Augusto, ma con risultato negativo, cercò di correggere il lusso e il libertinaggio: a un giovane che per ringraziarlo di avergli concessa una prefettura si presentò a lui tutto profumato, Vespasiano disse: "Avrei preferito che tu puzzassi d'aglio" e gli revocò la concessione
Sebbene dentro il Senato come nel patriziato esistesse una corrente che non gli favorevole, Vespasiano sia all'uno che all'altro rivolse non poche cure. Li rinsanguò con, 11 mèmbri della nobiltà provinciale e purgò l'ordine senatoriale e l'equestre cacciandone gli elementi più indegni.
Non molti ma abbastanza saggi furono i suoi provvedimenti legislativi e sociali. Fece decretare che fosse considerata anch'essa schiava la donna che si univa in matrimonio con uno schiavo di altri e che i crediti fatti dagli usurai non potessero essere riscossi presso i figli in vita e neppure dopo la morte del padre. 
Essendosi enormemente accresciuto il numero dei processi, Vespasiano elesse a sorte giudici che in via straordinaria giudicassero le cause portate davanti ai centumviri. Le entrate dei senatori furono completate; ai consolari furono dati cinquantamila sesterzi ogni anno; vennero destinati fondi per la ricostruzione di città distrutte dai terremoti e dagli incendi; furono assegnati diecimila sesterzi annui a coloro che insegnavano lettere latine e greche; furono dati stipendi e doni ai poeti e agli artisti di valore. E neppure gli attori furono dimenticati: Apollinare, famoso tragico, ricevette quarantamila sesterzi, ventimila ne ricevettero Terpico e Diodoro, da dieci a quattromila parecchi altri.
Non lievi danni Roma aveva sofferti dalle vicende politiche:  Vespasiano permise che chiunque potesse fabbricare negli spazi vuoti quando gli stessi proprietari tardassero  edificare; fece ricostruire il tempio di Giove Capitolino; fece rifare tremila tavole di bronzo distrutte dall' incendio, nelle quali erano documenti antichissimi e di grande importanza (senatoconsulti, plebisciti, trattati d'alleanza e privilegi); innalzò il tempio della Pace presso il Foro, riparò quello di Claudio sul Celio cominciato da Agrippina e quasi distrutto da Nerone, e nel centro della città tra l'Esquilino e il Palatino dove era il laghetto della Domus Aurea di Nerone, fece iniziare la costruzione, che fu compiuta dopo la sua morte: il grandioso anfiteatro (Colosseo) che doveva esser capace di ottantasettemila spettatori.
Per tutte queste opere occorrevano molti denari e le finanze invece erano in grave i dissesto. 
Svetonio scrive che Vespasiano, salendo all' impero, dicesse che lo stato aveva bisogno di quarantamila milioni di sesterzi. Per trovar soldi e restaurare l'erario Vespasiano ristabilì le imposte abolite da Galba, altre e più gravi ne aggiunse, tra cui quella multa che colpiva coloro che sporcavano fuori dei contenitori di rifiuti posti agli angoli delle vie, tolse l'autonomia a Bisanzio e alle isole di Rodi e Samo, fece una revisione dei beni demaniali e delle terre dei municipi, ridusse le feste, le pubbliche distribuzioni e le spese della casa imperiale. Pur di raggiungere il suo scopo non badò ai mezzi, che non sempre furono corretti. Secondo Svetonio egli elevava "alle cariche più alte i più rapaci procuratori per poi condannarli quando si fossero arricchiti"..."... che si serviva di questi come di spugne: quando erano asciutti li inzuppava, quando erano bagnati li spremeva".
Ma per merito di Vespasiano le finanze dello Stato furono rimesse in equilibrio. 
Oltre che all'erario Vespasiano rivolse attentissime cure all'esercito. Per non sottrarre soldati alle legioni egli ricostituì il corpo dei pretoriani con elementi arruolati in Italia; le coorti pretorie furono ridotte a nove, a quattro quelle delle guardie urbane e  perché i pretoriani non diventassero strumento pericoloso nelle mani di comandanti avidi e ambiziosi mise a capo di essi il figlio Tito.
Il numero delle legioni che sotto Augusto era di venticinque fu portato a trenta e radicali mutamenti si ebbero nell'esercito del Reno che durante la ribellione di Vindice aveva dato prova di indisciplina e di infedeltà: alcune legioni furono punite altre congedate o soppresse; tre nuove ne vennero formate e di queste due presero il nome dell'imperatore, la IV Flavia Felice e la XIV Flavia Finna.
Con la ricostituzione dell'esercito Vespasiano curò anche la difesa della frontiera del Danubio, rafforzandone la flottiglia e creando due campi stabili, uno a Vindobona, l'altro a Carnuntum, ciascuno dei quali presidiò con una legione.
Anche le province vennero riordinate. La Cilicia fu staccata dalla Siria ed eretta a provincia; una sola provincia formarono la Licia e la Panfilia, la Siria fu ingrandita con la Commagene e le città di Emesa ed Aretusa, alla Cappadocia furono unite la Galazia, l'Armenia minore, l'Isauria e la Licaonia; l'Acaia, cui Nerone aveva concessa la  libertà, divenne provincia senatoriale e la Sardegna e la Corsica che erano sotto l'amministrazione del Senato passarono alla dipendenza dell' imperatore.
Nel 71 Tito fece ritorno a Roma e celebrò con il padre il trionfo. 
Nel 79, trovandosi in Campania, Vespasiano fu colto da una malattia intestinale e si affrettò a tornare a Roma, dove morì il 23 giugno.  Si dice che, sentendosi alla fine, egli si alzasse dal letto ed esclamasse che un imperatore doveva morire in piedi.
Aveva regnato dieci anni ed era da poco più di un mese entrato nel settantesimo anno di età.