Il
nazionalismo del primo ‘800 ancora legato agli ideali della
rivoluzione francese e del migliore romanticismo, univa strettamente
l’amor di patria all’amore per la libertà. Era rivendicazione
dell’identità caratteristica: culturale, religiosa, linguistica, dei
singoli popoli ma nella prospettiva di una fraterna collaborazione
reciproca tra i popoli stessi. Superate le posizioni di una certa
storiografia nazionalistica che si batteva per un Risorgimento italiano
autoctono, va precisato che l’esigenza di unificazione nazionale
italiana è strettamente collegata ai valori e agli orientamenti che fra
Settecento e Ottocento derivano dalla rivoluzione francese, dalla
vicenda napoleonica e dalla cultura romantica con la rivendicazione di
una più ampia libertà, fortemente ricercata da “quell’individuo”
che nel romanticismo aveva preso coscienza di se. Questi valori
influenzarono tutta l’Europa, l’estero ancor prima dell’Italia.
Ecco
così, i moti del 1820/21, i moti del 1830 e quelli del 1848, e il
crescere dal basso di un’esigenza di strategie che vadano al di là
del moto regionale o dell’azione di sette segrete, ed
ecco quindi, Mazzini con la “Giovine Italia”.
Dopo
i moti e la prima guerra d’indipendenza, il bilancio fallimentare per
l’Italia fu ridimensionato dalla concessione, da parte di Carlo Alberto
nel marzo del 1848, dello Statuto Albertino. Questa carta costituzionale,
che durò fino al 1946, vedeva il re titolare effettivo del potere
esecutivo e partecipe con il parlamento, diviso in una Camera dei Deputati
(elettiva) e in un Senato (di nomina regia), del potere legislativo.
Nel
1820, nasceva il futuro erede di Carlo Albero, Vittorio
Emanuele II, (Re di Sardegna dal 1849) che governerà l’Italia dal 1861 al 1878. Questi, anche se
educato ai principi assolutistici della casa reale, pose, in linea con il
padre, la sua monarchia come forza di propulsione ed elemento di unione
nel processo dell’unificazione italiana. Come prima cosa rispettò lo
statuto del suo predecessore, decisione non priva di coraggio, che,
riconosciutagli dal popolo, gli valse il titolo di “re gentiluomo” e
gli attirò la simpatia degli italiani. In un primo momento guardò con
sospetto la politica di Cavour ma con la guerra di Crimea e soprattutto
dopo il congresso di Parigi (1856) lo appoggiò senza riserve. Dopo la
spedizione dei Mille, che giudicava, a differenza di Cavour,
favorevolmente, e che lo vide
in prima persona protagonista, varie annessioni sancite da plebisciti
trasformarono il Regno di Sardegna in
Regno d’Italia e Vittorio Emanuele, nel marzo del 1861, da re del Regno
di Sardegna a Re D’Italia con Roma per capitale.
Il
9 gennaio del 1878 la notizia improvvisa e inaspettata della morte del
sovrano colpì tutta l’opinione pubblica. Moriva il re che, a 57 anni
d’età e quasi 29 di regno, era stato protagonista della grandiosa
epopea del riscatto nazionale. L’immagine che si divulgò fu quella di
un eroe, di un re investito di una missione provvidenziale a cui tutta la
popolazione d’Italia era legata da un rapporto quasi filiale. Ogni cura
venne messa nell’organizzazione delle cerimonie funebri: l’esposizione
della salma al Quirinale, ed il trasporto e il funerale al Pantheon, il
quale fu decorato per l’occasione con una scritta che copriva il fregio
esterno e che recitava “A Vittorio Emanuele il Padre della Patria”.
Già
prima però di questa coinvolgente cerimonia, nella riunione del consiglio
comunale di Roma del 10 febbraio del 1878 nasceva l’idea di erigere
nella capitale un monumento in onore a
Vittorio Emanuele II.
Il
16 marzo del 1878 venne promulgata la legge che, accogliendo il progetto
del ministro Giuseppe Zanardelli, ordinava l’erezione a Roma di un
monumento nazionale alla memoria del re, lo stanziamento di otto milioni
di lire di contributo statale più sottoscrizioni popolari, il luogo
(piazza terme di Diocleziano) e la tipologia del monumento (l’arco di
trionfo, unica forma degna dei re). Venne così bandito, nel 1880, il
primo concorso a carattere mondiale. Forti furono giustamente le critiche
e le resistenze degli artisti Italiani: non poteva, giustamente, a loro
avviso, essere non italiano l’autore del monumento al primo re
d’Italia.
I
partecipanti che inviarono i primi progetti furono ben 315, rappresentanti
13 paesi differenti (v’era anche un concorrente giapponese), di cui 253
italiani.
Il
concorso provocò un vero e proprio delirio nell’ambiente e le idee
furono delle più varie e strane. Uno dei progetti ad esempio prevedeva
attorno a Castel Sant’Angelo, mutato in un grande faro elettrico, la
costruzione di alcune terme in nome del re. Importante è anche ciò che
prevalse in generale nei vari lavori, ovvero un pedante simbolismo e
allegorismo che imponeva ad esempio ad una torre di elevarsi per 10 piani,
tanti quanti furono gli anni impiegati per la costituzione dell’unità
d’Italia.
Nel
1882 venne bandito un secondo concorso, questa volta nazionale, che
stabiliva, sotto la pressione del presidente del Consiglio De Petris
in persona la nuova sede del monumento nell’area del Campidoglio.
Il
programma del secondo concorso quindi prescriveva: un monumento da
erigersi sull’altura settentrionale del campidoglio in asse con via del
corso, la statua equestre in bronzo del re, un fondo architettonico di
almeno 30 metri di lunghezza e 29 d’altezza, lasciato libero nella
forma, ma atto a coprire gli edifici retrostanti e la laterale chiesa
dell’Ara Coeli. I concorrenti ebbero un anno di tempo e le proposte
furono 98 di cui ne vennero selezionate tre: quella dell’architetto
tedesco Bruno Schmitz, quella di Manfredo Manfredi e quella di Giuseppe
Sacconi. La commissione reale votò all’unanimità Giuseppe Sacconi.
I
problemi dei costi dovevano passare in secondo piano, si sentì ora,
infatti, il confronto con l’estero e le opere grandiose che vennero
innalzate in circostanze simili e con la storia stessa di Roma e le grandi
opere riflesso del potere dei Cesari prima e dei Papi poi. I sacrifici
artistici ed archeologici, dipendenti dalla scelta del luogo, dovevano
essere del tutto sopportabili e il monumento al re non poteva essere
posposto al feticismo degli archeologi. Questo era il pensiero di De
Petris, ma non di tutti, Rodolfo Lanciani in testa. Per la costruzione del
monumento infatti, furono demoliti interi quartieri medioevali e
rinascimentali, rasi al suolo il convento dell’Ara Coeli, la torre di
Paolo III e il viadotto che la collegava a Palazzetto Venezia, la casa di
Michelangelo e di Giulio Romano, la bottega di Pietro da Cortona.
Scomparsero anche l’antica via della Pedacchia, via Macel de’ Corvi e
il vicolo di Madama Lucrezia.
Il
22 marzo del 1885 alla presenza della famiglia reale al completo si svolse
la cerimonia della posa della prima pietra.
Il
progetto di Sacconi si ispirava ai grandi complessi classici come
l’altare di Pergamo e il tempio di Palestrina, il monumento sarebbe
dovuto essere così un grande spazio pensato come un “foro” aperto ai
cittadini in una sorta di piazza sopraelevata nel cuore di Roma imperiale.
Sin
dall’iniziò il cantiere però non ebbe vita facile. Convinzione
generale era infatti che la collina su cui ci si stava apprestando a
costruire il monumento fosse stata di natura tufacea, invece, con
costernazione di tutti, la roccia di tufo non si trovava, e al suo posto,
argille fluviali, banchi di sabbia, strati sottili di creta, d’arena
gialla, pomice e scendendo più giù, sabbia ghiaiosa e persino acqua. Si
trovarono gallerie scavate nella Roma imperiale per estrarre il tufo (che
durante l’ultima guerra divennero rifugio antiaereo), ed emersero le
Mura dei Re e L’Arce Capitolina. Occorreva così obbligatoriamente
un’intensiva opera di consolidamento e ricostruzione del colle.
Fu
proprio nel corso di quest’impresa che venne trovata, a 14 metri di
profondità, la massa fossile di un mastodonte, un elefante preistorico,
con tanto di mascella e occhi pietrificati del pliocenico superiore.
A
questo punto il progetto venne per la prima volta modificato, la base
venne allargata, il portico allungato e sensibilmente curvato, concavo e
gli alzati alleggeriti. Superate questi primi ostacoli tecnici la fabbrica
prende piano forma nel bianco sparato del friabile marmo botticino fatto
venire da Brescia (guardacaso zona di origine del ministro Zanardelli) al
posto del travertino più resistente.
Una
seconda questione fu sulla realizzazione della statua equestre del re. Il
giorno stesso della chiusura del secondo concorso, la commissione reale ne
bandi un altro per la statua equestre e con grave disappunto del Sacconi
nominò Enrico Chiaradia. Fra i due fu subito conflitto, con dispetti e
critiche reciproche. Ne uscì vincitore lo scultore, il 18 luglio 1905,
venticinque giorni prima della morte di Sacconi infatti, venne dato
l’incarico di procedere alla fusione dei cannoni di bronzo forniti dal
Ministero della Guerra. Cinque anni dopo la statua era perfettamente fusa,
levigata e tanto grande che in occasione della visita di Vittorio Emanuele
III, venne imbandita una tavola all’interno del ventre del cavallo.
L’idea
originaria del Sacconi non prevedeva il re a cavallo, ma in apoteosi, con
gli indumenti regali “coronato dal genio della Vittoria primo re
d’Italia in Campidoglio”, a suo avviso una statua equestre era
totalmente inadatta al carattere del monumento stesso, in fondo,
sosteneva, quando il re era entrato a Roma non aveva forse cessato di
combattere per l’unità d’Italia e, quindi, non era più logica una
rappresentazione dell’apoteosi del sovrano come primo re d’Italia?
Da
qui nacque la parola chiave “Altare della Patria”, che Sacconi
accolse anche nella speranza di liberarsi di Chiaradia, ma che si
collegava a pieno a quel sentimento nazionalistico e risorgimentale che
era stato fondamento dell’ultimo secolo e che aveva visto Vittorio
Emanuele suo protagonista in prima persona come re dell’unificazione
della patria Italiana. Dopo la morte di Sacconi il progetto passò alla
triade di architetti: Gaetano Koch, Pio Piacentini e Manfredo Manfredi, i
quali sostennero la tendenza già attestata nella prima modifica, di
concepire il monumento come prosecuzione naturale della piazza.
Nel
1873 e successivamente nel 1883 vennero deliberate due leggi speciali per
Roma che avevano lo scopo di delineare un nuovo assetto urbanistico della
città, contribuendo al progetto “di volto nuovo di città moderna”.
Di questo periodo è lo sviluppo nel quadrante di nord-ovest,
sull’Esquilino che accoglierà i locali della pubblica amministrazione,
e via Nazionale. La nuova arteria costituiva un tassello di un piano
urbanistico ben studiato e simbolico. Nell’intersezione con
all’antichissima via Lata dei romani poi via del Corso e corso Vittorio
Emanuele formava, infatti, una struttura a T rovesciata che aveva punto
focale il monumento al re. Questo progetto è una chiara espressione di
quel monocentrismo che Roma aveva da secoli dimenticato e che ora riappare
sotto la spinta di riqualificazione dell’apparato urbano della città
eterna a fini politici e laici dell’unità nazionale e con lo scopo di
coinvolgere emotivamente e sentimentalmente la popolazione.
Occorrerà
però il trionfo della morte per coinvolgere a pieno i sentimenti della
gente, occorrerà la tragedia della guerra mondiale affinché la mole di
marmo conquisti un’anima, occorrerà il sacrificio di milioni di uomini
rappresentati in uno, un Ignoto, che verrà sepolto nel sacello sotto la
Dea Roma. Il Soldato e il
Popolo si fondono fino a formare un’unica simbolica e comunitaria
effige: la Nazione armata, cha ha combattuto in questa guerra di
massa e che ora si riscatta assurgendo al posto più alto, al
riconoscimento supremo.
Il
4 novembre 1921, giorno della tumulazione del Milite Ignoto sotto
l’Altare della Patria, nella cripta a lui dedicata, l’Italia intera si
è fermata per rendergli omaggio.
Durante
il periodo fascista ciò che entra in gioco, con l’imponente campagna di
restauri della Roma antica e
con la sistemazione, a spesa di numerosi reperti archeologici, della via
dell’Impero e della via del Teatro di Marcello, è la dialettica tra
passato e moderno, con la tendenza tipicamente del regime
all’attualizzazione del antico, in tutte le sue espressioni; nella
ritualità militare come nell’urbanistica.
La
piazza si riduce a un mero punto di propaganda e di confronto figurativo e
storico della diarchia re-duce, da una parte infatti c’è il monumento a
Vittorio Emanuele II dall’altra il Palazzo di Venezia. Del resto se non
fosse per la presenza del Milite Ignoto, sacro anche al regime, il
monumento è nato come emblema a uno dei componenti della casa reale
sabauda.
Di
questo periodo a completamento del complesso è la costruzione della nuova
cappella del Milite Ignoto e del Museo del Risorgimento. Il fascismo si
impossessava così del vittoriano e, nell’atto stesso, finiva per
annullarlo. Oramai alla mole era relegato il ruolo di ornamento per le
manifestazioni del regime e di palcoscenico per le celebrazioni della virtù
militare.
Con
la fine del regime fascista e la scelta, mediante un referendum, tra la
monarchia e la repubblica, il popolo italiano ha ritrovato nell’Altare
della Patria, il simbolo d’unità nazionale, che si celebra sulle sue
scale a date fisse: il 25 aprile, ricorrenza della liberazione, il 2
giugno per la festa della Repubblica con la relativa rivista militare, e
il 4 novembre, festa della Vittoria e giornata delle Forze armate.
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