Vittoriano
Piazza Venezia
M Colosseo
BUS 44 46 60 63 81 84 95 160 170 628 715 716 780 781 810
Storia
Il
9 gennaio del 1878 la notizia improvvisa e inaspettata della morte del
sovrano colpì tutta l’opinione pubblica. Moriva il re che, a 57 anni
d’età e quasi 29 di regno, era stato protagonista della grandiosa
epopea del riscatto nazionale. L’immagine che si divulgò fu quella di
un eroe, di un re investito di una missione provvidenziale a cui tutta la
popolazione d’Italia era legata da un rapporto quasi filiale. Ogni cura
venne messa nell’organizzazione delle cerimonie funebri: l’esposizione
della salma al Quirinale, ed il trasporto e il funerale al Pantheon, il
quale fu decorato per l’occasione con una scritta che copriva il fregio
esterno e che recitava “A Vittorio Emanuele il Padre della Patria”. Già
prima però di questa coinvolgente cerimonia, nella riunione del consiglio
comunale di Roma del 10 febbraio del 1878 nasceva l’idea di erigere
nella capitale un monumento in onore a
Vittorio Emanuele II. Il
16 marzo del 1878 venne promulgata la legge che, accogliendo il progetto
del ministro Giuseppe Zanardelli, ordinava l’erezione a Roma di un
monumento nazionale alla memoria del re, lo stanziamento di otto milioni
di lire di contributo statale più sottoscrizioni popolari, il luogo
(piazza terme di Diocleziano) e la tipologia del monumento (l’arco di
trionfo, unica forma degna dei re). Venne così bandito, nel 1880, il
primo concorso a carattere mondiale. Forti furono giustamente le critiche
e le resistenze degli artisti Italiani: non poteva, giustamente, a loro
avviso, essere non italiano l’autore del monumento al primo re
d’Italia.
Il
concorso provocò un vero e proprio delirio nell’ambiente e le idee
furono delle più varie e strane. Uno dei progetti ad esempio prevedeva
attorno a Castel Sant’Angelo, mutato in un grande faro elettrico, la
costruzione di alcune terme in nome del re. Importante è anche ciò che
prevalse in generale nei vari lavori, ovvero un pedante simbolismo e
allegorismo che imponeva ad esempio ad una torre di elevarsi per 10 piani,
tanti quanti furono gli anni impiegati per la costituzione dell’unità
d’Italia. Nel
1882 venne bandito un secondo concorso, questa volta nazionale, che
stabiliva, sotto la pressione del presidente del Consiglio De Petris
in persona la nuova sede del monumento nell’area del Campidoglio. Il programma del secondo concorso quindi prescriveva: un monumento da erigersi sull’altura settentrionale del campidoglio in asse con via del corso, la statua equestre in bronzo del re, un fondo architettonico di almeno 30 metri di lunghezza e 29 d’altezza, lasciato libero nella forma, ma atto a coprire gli edifici retrostanti e la laterale chiesa dell’Ara Coeli. I concorrenti ebbero un anno di tempo e le proposte furono 98 di cui ne vennero selezionate tre: quella dell’architetto tedesco Bruno Schmitz, quella di Manfredo Manfredi e quella di Giuseppe Sacconi. La commissione reale votò all’unanimità Giuseppe Sacconi. I
problemi dei costi dovevano passare in secondo piano, si sentì ora,
infatti, il confronto con l’estero e le opere grandiose che vennero
innalzate in circostanze simili e con la storia stessa di Roma e le grandi
opere riflesso del potere dei Cesari prima e dei Papi poi. I sacrifici
artistici ed archeologici, dipendenti dalla scelta del luogo, dovevano
essere del tutto sopportabili e il monumento al re non poteva essere
posposto al feticismo degli archeologi. Questo era il pensiero di De
Petris, ma non di tutti, Rodolfo Lanciani in testa. Per la costruzione del
monumento infatti, furono demoliti interi quartieri medioevali e
rinascimentali, rasi al suolo il convento dell’Ara Coeli, la torre di
Paolo III e il viadotto che la collegava a Palazzetto Venezia, la casa di
Michelangelo e di Giulio Romano, la bottega di Pietro da Cortona.
Scomparsero anche l’antica via della Pedacchia, via Macel de’ Corvi e
il vicolo di Madama Lucrezia.
Il
progetto di Sacconi si ispirava ai grandi complessi classici come
l’altare di Pergamo e il tempio di Palestrina, il monumento sarebbe
dovuto essere così un grande spazio pensato come un “foro” aperto ai
cittadini in una sorta di piazza sopraelevata nel cuore di Roma imperiale.
Fu
proprio nel corso di quest’impresa che venne trovata, a 14 metri di
profondità, la massa fossile di un mastodonte, un elefante preistorico,
con tanto di mascella e occhi pietrificati del pliocenico superiore.
Una
seconda questione fu sulla realizzazione della statua equestre del re. Il
giorno stesso della chiusura del secondo concorso, la commissione reale ne
bandi un altro per la statua equestre e con grave disappunto del Sacconi
nominò Enrico Chiaradia. Fra i due fu subito conflitto, con dispetti e
critiche reciproche. Ne uscì vincitore lo scultore, il 18 luglio 1905,
venticinque giorni prima della morte di Sacconi infatti, venne dato
l’incarico di procedere alla fusione dei cannoni di bronzo forniti dal
Ministero della Guerra. Cinque anni dopo la statua era perfettamente fusa,
levigata e tanto grande che in occasione della visita di Vittorio Emanuele
III, venne imbandita una tavola all’interno del ventre del cavallo.
Da
qui nacque la parola chiave “Altare della Patria”, che Sacconi
accolse anche nella speranza di liberarsi di Chiaradia, ma che si
collegava a pieno a quel sentimento nazionalistico e risorgimentale che
era stato fondamento dell’ultimo secolo e che aveva visto Vittorio
Emanuele suo protagonista in prima persona come re dell’unificazione
della patria Italiana. Dopo la morte di Sacconi il progetto passò alla
triade di architetti: Gaetano Koch, Pio Piacentini e Manfredo Manfredi, i
quali sostennero la tendenza già attestata nella prima modifica, di
concepire il monumento come prosecuzione naturale della piazza.
Il
4 novembre 1921, giorno della tumulazione del Milite Ignoto sotto
l’Altare della Patria, nella cripta a lui dedicata, l’Italia intera si
è fermata per rendergli omaggio. Durante
il periodo fascista ciò che entra in gioco, con l’imponente campagna di
restauri della Roma antica e
con la sistemazione, a spesa di numerosi reperti archeologici, della via
dell’Impero e della via del Teatro di Marcello, è la dialettica tra
passato e moderno, con la tendenza tipicamente del regime
all’attualizzazione del antico, in tutte le sue espressioni; nella
ritualità militare come nell’urbanistica.
Di
questo periodo a completamento del complesso è la costruzione della nuova
cappella del Milite Ignoto e del Museo del Risorgimento. Il fascismo si
impossessava così del vittoriano e, nell’atto stesso, finiva per
annullarlo. Oramai alla mole era relegato il ruolo di ornamento per le
manifestazioni del regime e di palcoscenico per le celebrazioni della virtù
militare. |
Visita al monumento
Ai lati della scalea principale si trovano due leoni alati e sulla sommità della scala, su due prore rostrate, le Vittorie Alate, anche queste, come i due complessi del Pensiero e dell’Azione, di bronzo dorato. Sul primo ripiano, l’Altare della Patria, con la tomba del milite ignoto: nella nicchia centrale la statua della dea Roma, opera dello Zanelli, a sottolineare il ruolo di guida che ha sempre avuto Roma e a significare come negli ideali del Risorgimento non si potesse immaginare un’Italia senza la città eterna. Verso Roma, nel fregio, convergono maestosi altorilievi raffiguranti il corteo del Trionfo del Lavoro a sinistra, e a destra il corteo del Trionfo dell’Amor Patrio.
Sul terrapieno del primo terrazzo sono i gruppi scultorei a destra della Forza, e della Concordia mentre a sinistra del Sacrificio e del Diritto.
La statua è alta 12 m ed è stata realizzata con la fusione di 50 tonnellate di bronzo, ricavate da cannoni di guerra forniti dal Ministero della Guerra Raccontano le cronache, che finito il lavoro, visto le grandi dimensioni, prima della chiusura della pancia del cavallo, in occasione delle visita del re Vittorio Emanuele III, si organizzò un banchetto con il re e 21 notabili della città all’interno del cavallo stesso. Alla base della complesso scultoreo sono rappresentate, sempre in altorilievo, 14 delle principali città italiane: Urbino, Ferrara, Genova, Milano, Bologna, Ravenna, Pisa, Amalfi, Napoli, Firenze Torino, Venezia, Palermo e Mantova.
Segue il portico, lungo 72 metri, con una fronte leggermente concava di sedici colonne alte 15 metri. La decorazione della trabeazione presenta le personificazioni delle regioni d’Italia (Piemonte, Lombardia, Veneto, Liguria, Emilia, Toscana, Marche, Umbria, Lazio, Abruzzo, Campania, Puglia, Basilicata, Sicilia, Calabria e Sardegna). Ogni statua venne affidata ad uno scultorei della regione stessa. La
rappresentazione delle regioni italiane è un ulteriore tassello
(insieme alle fontane dei due mari e alle 14 città) del obiettivo
generale che hanno tutte le decorazioni del monumento, ovvero la
rappresentazione, non solo allegorica, ma anche fisica, dell’Italia
Unità. A sottolineare l’importanza
All’interno del portico la decorazione musiva dei lunettoni rappresenta la Fede, la Forza, il Lavoro e la Sapienza. Al di sotto del portico otto altari ricordano le città liberate durante il primo conflitto mondiale, dietro ai quali sta il macigno del Monte Grappa e davanti alle due entrate, a propilei, svettano altre due Vittorie Alate su colonna. L’attico è ornato da un fregio di aquile alternate a grandi scudi e sotto i pronai dei propilei stanno i Geni scolpiti. Previste fin dall’inizio del progetto nel 1927 furono poste sulla sommità dei sue tempietti laterali due quadrighe rappresentanti a destra l’Unità e a sinistra la Libertà. Queste due quadrighe portano il monumento ad un’altezza di 81 metri dalla superficie della piazza. |
Un grazie particolare per questa ricerca a Chiara Ferralis