L’esperimento artistico-architettonico più originale intrapreso a Roma nei primi decenni del XX secolo è senza dubbio quello che si scorge nelle case della zona tra la Salaria e la Nomentana
che prende il nome di Quartiere Coppedè. Il curioso appellativo deriva dal suo stesso inventore, l’architetto e scultore fiorentino Gino
Coppedè, che lo progettò e ne guidò per la più parte la realizzazione, dal 1913 e poi, con una lunga interruzione dovuta alla Prima Guerra Mondiale, fino alla morte, avvenuta
nel 1926.
A quel tempo Coppedè padroneggiava nello stesso tempo gli stili decorativi più in voga in Europa, come il Liberty e l’Art
Déco, e il repertorio italiano dei secoli passati (con una predilezione per il Medio Evo, il Manierismo e il Barocco). Ne risulta un paesaggio unico: villini circondati da una discreta
vegetazione, edifici in cui l’antichità greca, con i suoi motivi mitologici, si uniscono al medioevo, un medioevo che si immagina da fiaba, con le fate e i cavalieri corazzati. In altri edifici si nota una dominanza del contemporaneo Liberty, fondato sulla stilizzazione di determinati elementi della natura, come
gigli, rose, campanelle, rami che si intersecano, uno stile a Roma piuttosto insolito, sormontato com’è dal cosiddetto "umbertino" neorinascimentale. Ma non è tutto: la Palazzina del Ragno, ad esempio, con i suoi archi disposti asimmetricamente e il faccione scolpito, vuole riecheggiare la statuaria
assiro-babilonese (a cui del resto occhieggiava anche l’arte barocca).
Ma nel repertorio di Gino Coppedè c’era dell’altro: egli era stato allievo della scuola di Alfredo D’Andrade, l’architetto e restauratore d’origine spagnola che costituiva, in Italia, l’esempio principe per la falsificazione dei monumenti antichi (suo è il Borgo Medievale di Torino). È a questo filone di
genialità capricciosa ed eclettica che dobbiamo lo sviluppo, nel Quartiere
Coppedè, di svariate suggestioni scultoree e decorative, sempre peraltro con un’attenzione prevalente alla natura e all’elemento passionale, e ad una mitologia spesso decisamente rude. Il tutto senza negare spazio al sacro della religiosità
cattolica: un’edicola con una Madonna con il Bambino si trova su una delle torri che fiancheggiano l’enorme arco che delimita l’accesso al quartiere, in piazza Mincio (un’altra è in via Brenta, sul muro di una casa simil medievale). E nemmeno alle eventuali suggestioni cinematografiche, se è vero che il
portone di piazza Mincio 2, risalente al 1926, e dunque, probabilmente, l’ultima costruzione di mano del maestro
Coppedè, è copiata fedelmente da una scena del film Cabiria del 1914.
Dopo la sua costruzione il Quartiere Coppedè è finito in un oblio generale, screziato qua e là dalla curiosità di qualche visitatore più o meno erudito. Il fatto è che le costruzioni fantasiose che Gino Coppedè vi volle realizzare, all’interno risultarono ben presto piuttosto scomode e invecchiate. Inoltre,
l’innalzarsi di nuovi palazzi all’intorno nei decenni successivi, la fiumana di traffico automobilistico e la selva di insegne al neon sempre più vivaci fanno sì che il quartiere abbia un aspetto antiquato e un po’ spento. Un’operazione architettonico-urbanistica interessante ma che non teneva conto dei
successivi sviluppi della città e della società (e chi lo faceva, allora?) ma che certamente era assai interessante, nel suo sincretismo e nella sua apertura al mito senza apparati ideologici (come sarebbe stato, di lì a poco, per l’architettura del fascismo).
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